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giovedì 7 gennaio 2016

L’esilio di Lucio Battisti imposto dalla sinistra comunista

 
 
Di Sergio Rizzitiello, 


La storia ha bisogno di figure tipiche, ideali, per esemplificarsi, altrimenti i nudi fatti, nella loro rozza materialità, nella loro grossolana volgarità, sarebbero senza anima, senza poesia, senza respiro.
Vi è una figura ideale a cavallo tra gli anni 60 e 70, questa figura è Lucio Battisti.
L’artista di Poggio Bustone, il luogo dove è nato, ha sicuramente rappresentato la cultura più schietta, più genuina, più libera perché ancorata alle emozioni di quei travagliati anni. Egli, tramite i testi di Mogol, seppe dar voce alle spinte libertarie, innovative che già dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti stavano arrivando potentemente anche da noi.
Non è un caso che la sua musica portò un vento di novità, sapendo coniugare il pop e il rock internazionale con il meglio della melodia italiana che partiva dalla canzone napoletana, fino ad arrivare a Modugno, passando per Luigi Tenco.
La contro-cultura che si avvertiva nelle canzoni di Lucio Battisti era la stessa che si affermava nella “beat generation”, nei “Figli dei fiori” dei movimenti Hippies, che in modo ingenuo ma efficace volevano contrapporre a un mondo violento, interessato, ipocrita, una cultura basata sull’amore, scevro dalle convenzioni, dai conformismi, dalle istituzionalizzazioni.
Ma un grosso nemico presto si abbatté su queste innovative e creative tendenze: il marxismo-leninismo e il maoismo.
La guerra non avvenne tramite una lotta tra nemici, ma presentandosi come compagni di lotta che meglio però potevano rappresentare la critica globale alle società occidentali.
I gruppi marxisti e leninisti e quelli maoisti tolsero in un sol colpo, con un taglio della loro acuminata sciabola, tutto ciò che di più creativo, libero, emotivamente profondo veniva espresso dalla “beat generation”, sostituendola con una cultura basata sull’odio, sulla guerra permanente, sulla contrapposizione violenta al sistema borghese e capitalista.
In Italia, sicuramente Lucio Battisti era l’espressione e l’incarnazione di ciò che di meglio c’era nella “Beat generation”, ciò che di più autenticamente creativo si cercava di instaurare attraverso le sue canzoni basate sulle emozioni d’amore, sui conflitti nel viverlo, sul desiderio di librarsi comunque su un mondo sentito come inautentico.
Il grandissimo successo popolare che l’artista seppe suscitare era veramente troppo per i nuovi padroni della cultura che, attraverso una strategia già indicata da Gramsci, dovevano impossessarsi di tutti i centri nevralgici della società.

Battisti doveva per forza di cose allora essere denunciato come fascista, reazionario, sostenitore e addirittura sovvenzionatore di gruppi eversivi di estrema destra.
Le canzoni di Battisti subirono una vera e propria fatwa da parte di questi cultori dell’odio.
E accadde una cosa incredibile: tutti gli ascoltatori di sinistra, comunisti, cominciarono ad ascoltare Battisti di nascosto, ufficialmente vergognandosi di indugiare in tale amore musicale.
Lucio Battisti veniva totalmente osteggiato, spubblicato, e anche su consiglio di Giulio Rapetti, alias Mogol, decise di ritirarsi in un silenzioso esilio, dal quale non usci fino alla morte.
Esilio, e questa è la cosa più tragica, che alla fine si è voluto credere volontario.

Anche la sua ultima produzione, quella con il poeta ermetico Pasquale Panella, era il risultato di questo esilio, infatti Battisti voleva che i testi fossero freddi, disemotivizzati, e le sue stesse musiche, tranne rare eccezioni, erano cibernetiche, agghiaccianti, basate su campionature computerizzate.
Tristissima parabola di un grandissimo artista, il maggiore che l’Italia ha saputo esprimere nell’ambito della musica popolare, ma che sa esprimere un’angoscia ancora attuale: la lotta tra una concezione del mondo basata sull’odio contro ogni tentativo di libertà.

Ma documentiamo meglio questo esilio “volontario” di Lucio Battisti (che in realtà è stato solo l’inevitabile esigenza di evitare rischi e di rifiutare un mondo “culturale e musicale” che lo osteggiava poiché rappresentante reazionario e fascista, piccolo borghese e sdolcinato sentimentalista) prendendo in esame gli anni, che vanno dal 1972 al 1978, culminanti con il rapimento e l’omicidio del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, che hanno espresso al peggio un clima di violenza ideologica in cui chi non era comunista, anzi addirittura di posizioni estreme, era additato come portatore di una cultura inferiore degna di essere esclusa e/o eliminata.

Per capire l’ostracismo nei confronti di Lucio Battisti mi rifaccio alle acute parole di Paolo Fabbri, un semiologo, che nel 1994 così scrisse:” Battisti non cantava il domani, il mondo migliore: cantava in divenire, c’era un divenire nel canto, che annunciava qualcosa senza aver bisogno di dire cosa fosse (…) ma ti apre a un divenire di emozioni che non conosci (..) Battisti non ha rappresentato i giovani, li ha fatti”.

Ecco, è questo fare che non era ammissibile ai gruppi di contrapposizione violenta di estrema sinistra, e anche a quelli più moderati comunisti del PCI, che allora si affacciavano sulla scena politica e sociale italiana.

Per loro la musica doveva essere impegno di lotta di classe, abbattimento delle sovrastrutture borghesi che con l’industria musicale finalizzata al consumismo creava scientemente una sorta di sonno per obliare la consapevolezza di una matura coscienza di classe.
I testi delle canzoni di Battisti scritti da Mogol erano reazionari proprio perché non prendevano in nessun modo in esame tale lotta di classe, anzi, borghesemente, indugiavano in temi sentimentali ammantati per giunta di maschilismo strisciante.

Il giornalista Lanfranco Vaccari parla di una “Vigilanza sulla Linea”, cioè di una vera e propria censura verso chiunque ascoltasse un controrivoluzionario come lui.
Il cantautore Pierangelo Bertoli, che in molte sue canzoni parlava di questa lotta di classe, infatti, scrive: ” Non sono mai stato un suo grande estimatore. Non ho mai condiviso i testi delle sue canzoni, non perché vi trovassi precisi riferimenti all’ideologia della Destra, ma perché li ho sempre considerati superficiali e maschilisti. E comunque negli anni Settanta si sapeva che stava a Destra e che era vicino al Movimento Sociale. Lo si sapeva e basta.”
In questo “Lo si sapeva e basta” c’è tutta una filosofia, anzi per essere precisi, una pseudofilosofia, infatti, quello che l’ideologia, comunista estrema e moderata, dichiarava essere inferiore, fiancheggiatrice della reazione, non era criticabile, non si doveva mettere in discussione, era invece da accettare acriticamente perché a pensarci erano state le menti superiori della Linea che vigilavano permanentemente su tutti i rivoluzionari e su tutte le anime semplici che dovevano essere corrette se deragliavano dalla giusta via.

Ornella Vanoni, con giusta considerazione dice che: ” In quegli anni chiunque parlasse d’amore veniva considerato di Destra”, tanto da costringere gli “intellettuali organici” come Lidia Ravera ad ascoltarlo di nascosto: “Era l’unico elemento di trasgressione alle indicazioni della sinistra extraparlamentare. Ero ligia su ogni cosa, ma non su Battisti.
Con il senno di poi, commentando quelle posizioni, Edmondo Berselli, caporedattore della rivista “Il Mulino”, dice: “… siamo riusciti addirittura a trasformare Lucio Battisti in un pericoloso esponente della Destra”.

Certo, ora a Berselli pare assurda tutta quell’ondata di odio verso l’artista, però, con ingenuità, o ipocrisia, non si rendeva conto allora, e non si rende conto ora, che tutto era del tutto logico e coerente con l’ideologia che si sosteneva.
Insomma, l’amore è sinonimo di individualismo egoistico e reazionario, mentre l’impegno verso il collettivo è rivoluzionario, tanto che lo stesso Mogol dovette constatare che quei figli di papà, che dominavano i gruppi marxisti e maoisti, erano impregnati dogmaticamente e coattivamente solo di discorsi cinesi.

Già nel 1973 non poteva essere organizzato nessun concerto rock senza prevedere scontri violenti con orde di facinorosi che inneggiavano minacciosi a slogan quali “Riprendiamoci la musica”, la musica si sente, il biglietto non si paga” e simili, tanto che il più importante impresario di artisti stranieri in Italia, Franco Mamone, dovette ritirarsi dall’attività perché preso di mira dai più facinorosi. Ma il caso più clamoroso accadde nel 1975 al Palalido di Milano, a un concerto di una celebre rock star internazionale, Lou Reed, che dovette ritirarsi perché impedito a esibirsi da un fitto lancio di sassi. E stessa cosa accadde a Roma, al palasport, con un’escalation di violenza ormai non più gestibile, fatta di pestaggi, sfondamenti, tanto che David Zard, colui che aveva preso il posto di Mamone, salendo sul palco cercò invano di placare gli animi e solo l’intervento della polizia poté, in minima parte scongiurare il peggio, anzi, i tumulti si propagarono all’’esterno prendendo la tragica forma di una vera e propria guerriglia urbana.

Stessa sorte toccò al cantautore comunista Francesco De Gregori nel 1976 al Palalido di Milano, accusato di carenza di impegno politico nei suoi testi. Così riporta il “Corriere Della Sera”: Una giornata amara e ad alta tensione quella del 2 aprile del 1976. Francesco De Gregori è in scena al Palalido. Dopo il concerto del pomeriggio il cantautore ritorna sul palco. Tutto esaurito, grande attesa, entusiasmo palpabile. Alle 21 i cancelli vengono aperti, gli organizzatori decidono di fare entrare gratis un migliaio di ragazzi rimasti fuori e, probabilmente, pronti a sfondare. La musica comincia. De Gregori però viene più volte interrotto. Urla, fischi, accuse.

Un gruppo di giovani della sinistra più estrema e intollerante prende posizione dietro il palco. Partono le ingiurie e il cantautore viene attaccato duramente «perché specula e si arricchisce con le canzoni». Il concerto viene più volte interrotto e un gruppo di giovani invade il palco. Gli estremisti si impadroniscono del microfono e leggono un comunicato contro l’ arresto (avvenuto a Padova) di un militante della sinistra extraparlamentare. Tra il pubblico spintoni e diverse scazzottature. E qualcuno non riesce a trattenere le lacrime. Venti interminabili minuti di interruzione poi il concerto riprende. Francesco De Gregori si ritira nel camerino. Ma non è ancora finita. Un gruppo di estremisti prende d’ assalto il camerino e costringe De Gregori a riuscire e risalire sul palco. Il servizio d’ ordine cerca di arginare l’ assalto. Nulla da fare. Al microfono partono raffiche di accuse pesanti. Un processo incredibile e aspro e senza possibilità di difendersi. Francesco De Gregori, sempre più pallido e spaventato, viene contestato e messo alla berlina per i quattrini ricevuti, per i cachet ritenuti troppo alti e mai destinati alle lotte dei lavoratori e viene addirittura invitato a smettere di suonare e a fare l’ operaio. «La rivoluzione non si fa con la musica – ringhia uno degli estremisti -. Lo diceva Majakovskij che era un vero rivoluzionario e si è suicidato. Suicidati anche tu». Finalmente il processo finisce. De Gregori riesce a raggiungere il camerino. È distrutto. Annuncia che mai più canterà in pubblico.”

Racconta De Gregori che passarono anni prima di potersi riprendersi da quell’esperienza.
Se cantanti dichiaratamente comunisti e “impegnati” rischiavano grosso, figurarsi cosa poteva succedere a Lucio Battisti, infatti, il suo individualismo non poteva in nessun modo essere accettato, men che meno il suo enorme e clamoroso successo popolare.
Già, l’individualismo.
Ogni concezione autoritaristica, totalitaria, non sopporta l’individualità, perché il fine cui si tende e creare una massa conforme, gregaria, abbeverantesi ai diktat dei capi, tanto che ogni espressione libera è avvertita come una pericolosissima minaccia, e la massima minaccia è espressa proprio dalla creativa e libera azione dell’individuo, che sfugge alle costrizioni in cui lo si vorrebbe intrappolare.
Quella individualità che i Vigilanti della Linea vorrebbero distruggere e che Lucio Battisti, con la sua arte, esprimeva in pieno, quella individualità che fece dire al filosofo Kierkegaard: “Quando si sa per esperienza che non c’è nulla di più terribile che esistere in qualità di Individuo, non si deve neppure aver paura di dire che non c’è nulla di più grande”, al contrario dei collettivisti, dei settari che “…si associano a vicenda con un gran baccano, tengono lontana l’angoscia con le loro grida; e questa banda di gente urlante crede assalire il cielo…”

Così i settari dell’odio totalitario comunista, non potendo più eliminare direttamente fisicamente le individualità, le costringono all’esilio ed espungendole dal contesto umano in cui esse liberamente attraggono e sprigionano la loro azione creativa, pensano di poter uccidere ogni libertà.
Ma la libertà non può avere contropartite: o essa è presente, oppure l’uomo si disumanizza e muore.
Lucio Battisti, come altre creative individualità, è stato costretto all’esilio, ma la sua arte è rimasta viva, la sua anima libra ancora nel suo canto libero contro tutti i Vigilanti della Linea dell’odio.
Approfondiamo meglio la differenza tra “beat generation”, “mondo Hippy” e sinistra comunista e sinistra extraparlamentare e mostriamo come Lucio Battisti appartenesse a tutto tondo alle prime due.
Negli anni “60, dopo le tragedie della seconda guerra mondiale, si propagò in Occidente, un fortissimo desiderio di libertà, pace e amore, un nuovo modo di stare insieme senza le rigidità autoritarie, le discipline militarizzate, che avevano prevalso fino allora.
Queste istanze furono avvertite soprattutto dai giovani che da sempre hanno avuto verso tutto ciò che è dirompente, anticonformistico, un’attrazione biologica e psicologica.
I giovani sono naturalmente portati verso il futuro e quindi mal sopportano i carichi eccessivi legati al passato.

Solo che il paradosso è stato che negli anni “60 tutto ciò che c’era di più libertario, antiautoritario proveniva dal passato, anche se era un passato critico verso il tradizionalismo, verso il soffocamento della spontaneità, verso la repressione degli impulsi sessuali e del loro irrigidimento, salvo poi farli sfociare in deviazioni il più delle volte turpi e violente.

Luis Racionero ha scritto un interessantissimo libro, negli anni “70, proponendo di chiamare tutto quello che vi era di più libertario come “filosofie dell’underground”.
Sono underground, nascoste, perché da sempre schiacciate dalla cultura dominante che per meri motivi di dominio, di potere, mal sopporta, anzi, per nulla sopporta che vi siano tendenze alternative a essa.

La base di queste filosofie, Racionero, la rintraccia nel concetto di “esperienza”, vale a dire non erano teorie o ricerca di teorie ma desiderio di vivere delle esperienze nuove che allargassero le capacità mentali utilizzando correnti di pensiero eterodosso che compaiono già con gli sciamani preistorici.
Queste correnti underground, nello scorrere attraverso la storia, hanno assunto vari e a volte parziali volti, ma tutti sono ispirati da questo fiume sotterraneo che è represso ma che non si può sopprimere del tutto e che quando emerge porta un soffio vitale di creatività negli uomini.
Negli anni “60 l’underground diede vita alla “controcultura” antiautoritaria, basata sull’accentuazione della musica rock, sulle comuni Hippy e sulla filosofia orientale.

Io aggiungerei che molta influenza ebbero anche le tradizioni mistiche createsi nell’occidente cristiano, tra cui il francescanesimo, il movimento dei poverelli, e dei frati minori, insomma tutto quell’universo che si rifaceva allo spirito più genuino dei Vangeli, infatti, si diffuse una vera e propria cristofilia che curiosamente si accompagnò all’esaltazione degli Arancioni di Hare Krishna, alle teorie del buddismo Zen e taoistiche e al purismo mistico del sufismo.
Toccò agli Stati Uniti essere la patria di tali esigenze, che però si erano anticipate già in Inghilterra proprio col mondo beat dei Beatles e dei Rolling Stones.

La sola materialità del mondo non era più sufficiente, nasceva l’esigenza, agganciandosi a tali correnti underground, di voler vivere esperienze più appaganti, più ricche, più soddisfacenti, tanto che a una cultura del sacrificio si volle sostituire una cultura del godimento, ma non era un godimento di effimere scariche filologiche, di scaricamento di energie istintive per un ripristino dell’omeostasi, ma un godimento totale che voleva unire il corpo con lo spirito.
La ricerca di esperienze più totalizzanti portò ad avvicinarsi a tutte quelle esperienze psichedeliche che in modo grossolano si cercavano anche nelle droghe: era come spezzare un’interna barriera, un muro, per aprirsi a una percezione più estesa.

Le stesse filosofie razionalistiche furono contestate, in special modo il cartesianesimo che era visto come oppressivo per la sua radicale divisione tra mondo del corpo e mondo dello spirito, tra bios e pneuma, tra res extensa e res cogitans, infatti, il pensiero non doveva più basarsi sulla sola attività della mente, della psiche, ma doveva aprirsi alle correnti, ai flussi del corpo, attraverso l’energia sessuale, e fondersi con esse.
Si potrebbe definire questo come l’esperienza del pensiero corporale, la mente ha un corpo e il corpo ha una mente.
Tutta la cultura dominante che si basava su tali dicotomie era rigettata e per questo si doveva correggerla con una controcultura.

Con gli spettacoli espressi dal mondo beat e hippie di “Hair” e “Jesus Christ Superstar”, in modo spettacolarizzato, a volte grossolano e ingenuo, si voleva dar corpo proprio a tali esigenze.
Però accadde che i sogni psichedelici sfociarono nella droga psichedelica, le comuni hippie, in orticelli in cui deflagrarono tutte le contraddizioni autoritarie della società, le filosofie antirazionalistiche in ingenue, quanto non pericolose filosofie irrazionalistiche che non di rado giustificavano eccessi di violenza e forme maniacali.

Ma soprattutto la “controcultura” lentamente, ma inesorabilmente, si trasformò in occupazioni politicizzate, in simpatie extraparlamentari di sinistra leninista e maoista, in “68 con slogan tipo “la fantasia al potere” “l’occupazione è finalizzata all’occupazione” e all’esaltazione di miti nefasti e violenti come quelli di Che Guevara, Ho Chi Minh, Mao, Pol Pot, Fidel Castro e simili.
La stessa critica del mondo autoritario e grossolanamente materialistico si fece incanalare nella critica feroce all’american way of life, in un antiamericanismo voluto da Stalin con la graziosa appendice nobilitante del pacifismo.

Con questo atto di cannibalismo, nel mondo, e in Italia già nel 1973, la controcultura della beat generation e del mondo hippy finì malamente.
Battisti che aveva vissuto in pieno gli entusiasmi di quel mondo spontaneista, antiautoritario, creativo, fresco e nuovo, trovò una fonte inesauribile di ispirazioni musicali e senza timore di poter essere smentito, sicuramente tutto il meglio che musicalmente, e Mogol nei testi, la sua produzione artistica realizzò si ebbe in questo clima degli anni “60 e inizi anni “70, quando ancora le minacce cupe dell’egemonia comunista non avevano fatto sentire la loro voce.
Le iniziali canzoni, “29 settembre” “Acqua azzurra, acqua chiara, “Non è Francesca”, “Fiori rosa fiori di pesco”, “Mi ritorni in mente”, “Io vivrò senza te”, “Il tempo di morire”, “La canzone del sole” “E penso a te”, “Anche per te”, “Comunque bella”, “Anna” “Emozioni”, “I giardini di Marzo” “Pensieri e parole”, “Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi”, “La luce dell’est”, Il mio canto libero”, hanno un’intensità, una creativa freschezza che Battisti non riuscì più a ritrovare dopo, in particolare c’è una canzone “Vento nel vento” che a mio parere è la sua canzone più intensa, un vero e proprio gioiello di fusione tra musica e parole, un’intensa canzone d’amore che ha pochissimi eguali nella musica italiana e nella stessa produzione artistica di Battisti.

Dopo il 1976 la sua vena artistica già mostra una certa stanchezza, una certa ripetizione, una forzatura di temi già solcati, già battuti, e seppur trova ancora la vena artistica per alcune cose pregevoli come”Ancora tu”, “Sì, viaggiare”, “Amarsi un po’”, “Perché no”, “Con il nastro rosa”, nella pur ispiratissima “Prendila così”, nell’insieme la sua vena artistica si sta esaurendo perché la fonte si era spenta, quella fonte meravigliosa che era emersa dall’underground della storia e si era incarnata in lui a livello musicale.

Battisti si era inaridito perché la storia si era inaridita, all’Eros si era sostituito il Thanatos, all’amore, l’odio, al vento dantesco di “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” di Vento nel vento, si era sostituita la tempesta degli anni di piombo, nei quali si consacreranno per complicità e per reazione la partitocrazia, il cattocomunismo e, decenni dopo, l’antiberlusconismo.

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